mercoledì 29 luglio 2015

obituary




Esistono in Italia, ab aeterno, due generazioni di poeti: poeti di natura e poeti di cultura. Poeti di natura sono praticamente tutti gli italiani: ministri, camorristi, democristiani, fascisti, comunisti, banchieri, brigatisti, onorevoli, disonorevoli, casalinghe, squarquoie, professoresse, chiromanti e chi più ne sa ne metta. Poeti di cultura sono alcune centinaia di persone, tormentatrici di sè stesse e degli altri, sussiegose, altezzose, mafiose, rancorose, studiose, ipocrite, mediocri. Poi anche ci sono i poeti veri e grandi, di tanto in tanto, si capisce: ma quelli sono talmente pochi (due o tre per secolo nei secoli di grazia) e fin che vivono sono talmente emarginati, umiliati, repressi e compressi dagli altri che non mette conto di parlarne. (Pare assodato che l’unico punto di intesa tra poeti di natura e poeti di cultura sia la solidarietà feroce contro chiunque abbia il cattivo gusto di trovare ciò che loro fingono di cercare, sudando e sbuffando e autocelebrandosi per la ricerca). Per tagliar corto ad ogni possibile illazione l’autore di questo sincerissimo opuscolo dichiara: 1) che in questo momento in Italia di poeti grandi non ne vede; 2) che lui è ben lontano dal considerarsi tale; anzi gli duole d’aver scritto per anni come ranocchia nel pantano d’Arkadia, cantando in coro con le altre ranocchie e sbattendo il culo per terra ad ogni movimento. Hélas.
2. Tornando all’Italia e alle sue istorie letterarie. – Ci sono epoche in cui prevalgono i poeti di natura ed epoche in cui prevalgono i poeti di cultura. Distinguerle è facile, perché i poeti di natura, che sono milioni, finiscono per esprimersi collettivamente in un Vate; mentre i poeti di cultura, che sono centinaia e scrivono cose abbastanza omogenee, nella mediocrità e nel decoro e nella reciproca vigilanza delle carriere di poeta, si esprimono appunto in confraternite Arkadie: come ora.
3. D’Annunzio è stato l’ultimo Vate italiano. Dopo D’Annunzio e dopo la guerra ci ha provato Pasolini a diventare Vate, ma non cè (sic!) riuscito perché intanto l’Italia si era trasformata (troppe automobili, troppe scuole, troppa tecnologia, troppo progresso) e anche perché i milioni di poeti di natura che vivono costì stentavano a identificarsi con la sua immagine un po’ troppo deviante, un po’ troppo intellettualistica. – Alla fine degli anni Cinquanta Pasolini tenta l’alleanza con i rétori e quindi col Franco Lattes, in arte Fortini, ultimo erede di quella verbosità sapienzale e istrionica che rappresenta anch’essa un segmento di storia italiana e che – a creargli le condizioni adatte – può far piangere milioni di persone con la tavola pitagorica e farle fremere con l’elenco del telefono. Ma, se non è tempo di Vati, non è nemmeno tempo di Rétori, nell’Italia del cosiddetto «miracolo economico»: la gente compra automobili, balla il twist, mangia bistecche tutti i giorni e si lustra gli occhi, alla televisione, con le gambe delle gemelle Kessler. Insomma è allegra, sta bene. (Mentre è noto che i rétori di stile sublime o tragico, alla Fortini, possono assurgere a Oracolo soltanto se li si colloca in un quadro di catastrofi, di sciagure spaventose e protratte, di pestilenze, di guerre.
4. Il primo Bosco Parrasio si fa a Milano nel 1961; ed è subito Arkadia. I pastori (cinque) prendono il nome di Novissimi ed eleggono a capobosco provvisorio un Alfredo Giuliani arcade pulito e manierato, di grande finezza e schizzinosità. Gli altri Novissimi sono, in ordine alfabetico: Nanni Balestrini, Elio Pagliarani, Antonio Porta, Edoardo Sanguineti. Il più giovane del gruppo è Nanni Balestrini, ventitreenne; il più discusso è Leo Paolazzi, in arte Antonio Porta (ma poteva anche chiamarsi, m’immagino, Paolo Parini o Giovanni Manzoni). Si dice che, in quanto poeta editore dei Novissimi il Paolazzi abbia all’ultimo momento preso il posto del poeta semplice Giuseppe Guglielmi traendolo a forza giù di Parnaso e costringendolo a vita appartata e melanconica. Si dice che i suoi carmi non siano particolarmente nuovi né particolarmente ispirati. (Ma chi solleva queste obiezioni ignora, primo: che il primato del poeta-editore sul poeta semplice è consuetudine d’Arkadia; secondo: che negli anni a venire e per la legge dei grandi numeri il Paolazzi produrrà versi – pochi – non immortali ma accettabili).
5. Il Vate esiste in funzione del grande pubblico, che non è necessariamente un pubblico di lettori; l’Arkadia esiste in assenza di pubblico. Cioè: anche se l’Arkadia finisce per avere alcuni lettori – e sarebbe difficile non averli: su 50 milioni di persone inevitabilmente ce ne saranno 30 mila che collezionano scatole di fiammiferi, 10 mila che studiano il sànscrito e mille che leggono poesia arcade – non annette loro la benché minima funzione. Di fatto l’Arkadia è una società di poeti, in cui tutti sono autori e lettori, ed è una società chiusa, che non si fa imporre regole e gerarchie dall’esterno. Tizio può avere mille lettori (che per un arcade sono moltissimi) e contare nulla; Caio può avere otto lettori (che per un arcade è condizione abbastanza normale) ed essere un capobosco riverito e autorevole.
6. La terza Arkadia del Novecento italiano (già c’eran state due Arkadie, quella fiorentina dei Papini Prezzolini Soffici e quella nazionale degli Emetici (sic!) ) si chiama ufficialmente «neoavanguardia» e si riproduce per Boschi. – Il secondo Bosco Parrasio si fa a Palermo coi prosatori («Scuola di Palermo»): ma questo Bosco, se dio vuole, se l’è inghiottito l’omertà siciliana (nessuno l’ha visto, nessuno ne sa niente, nessuno ne parla). Il terzo Bosco Parrasio si fa a Firenze («Gruppo 70») con notevole baccano ed uso di megafoni nelle piazze: ora insegna all’università. Il quarto Bosco Parrasio si fa in Emilia («Malebolge» ecc.) ed è qui che l’Arkadia potrebbe ricevere, se volesse, gli apporti più consistenti; ma non vuole. – È, quello emiliano, il Bosco di Adriano Malavasi, cantore di «Lorante cavaliere errante» ed attualmente oste in Modena; è il Bosco di Gian Pio Torricelli, internato per molti anni in un manicomio criminale: a lui e a Dino Campana queste pagine sono dedicate. Io ricordo di aver conosciuto Torricelli a Fiumalbo, nel 1967, quando godeva d’una sua piccola notorietà per aver fatto l’eco a Umberto Eco e per aver pubblicato con le vecchie edizioni Lerici un volumetto intitolato Coazione a contare: che partendo da uno, due, tre arrivava a quattromilanovecentonovantotto, quattromilanovecentonovantanove, cinquemila. Fine. Gli agenti della questura di Modena lo presero un giorno che stava seduto sulla «pietra ringadora» a fumare una marlboro – così a me i fatti sono stati raccontati – e gli contestarono l’uso di sostanze stupefacenti (hashish). In galera diede in escandescenze: fu trasferito al manicomio criminale di Reggio Emilia, dove ebbe come difensore l’avvocato Corrado Costa, arcade del luogo. (Interpellato da amici sulla sorte del Torricelli, alcuni anni dopo il fatto, pare che il Costa abbia detto: «Ora è più calmo», «Sta meglio»). È infine, il Bosco di Adriano Spatola, che credeva e forse ancora crede nella possibile esistenza di un Vate arcade. (Ma no, Adriano, ma no: ci sono solo capibosco e padrini, in Arkadia).
7. Essendo composta prevalentemente di professori universitari, l’Arkadia celebra le sue feste come sessioni d’esame: nel 1965, a Reggio; nel 1967, a Fano. Tra gli aspiranti poeti che si presentano alla prova ci sono i promossi e i bocciati e c’è anche, per ogni sessione, l’incoronato d’alloro, il Novissimo di turno. A Reggio Emilia Novissima è tal Patrizia Vicinelli, autrice dell’opera a, à, A (Lerici ed.); che trovandosi così inopinatamente baciata in fronte dalla gloria comincia, pare, a dare segni di squilibrio. A Fano il nuovo Novissimo è tal Sigiani o Siggiani: un giovanotto del luogo che s’impadronisce del microfono per sbeffeggiare gli arcadi e che viene immediatamente incoronato dal capobosco Sanguineti come portatore dell’unica novità emersa durante il convegno: la distruzione dell’Arkadia. (Un’idea che Sanguineti sta già accarezzando, e che a suo modo attuerà).
8. Io mi sono laureato scrittore (non col massimo dei voti ma neppure con una votazione cattiva) a Fano nella primavera del ’67: in quell’occasione lessi tre o quattro pagine del mio primo libro, Narcisso, allora ancora manoscritto, e ricevetti vari consensi tra cui – particolarmente ambìto e autorevole – quello del capobosco aggiunto Alfredo Giuliani. In tema di cultura generale ci fu poi chi mi chiese (Filippini, credo) se conoscessi Barthes, Il grado zero della scrittura. No, non lo conoscevo, (Ma a dichiarare una cosa simile la bocciatura era assicurata e quindi tergiversai, farfugliai non so che, riuscii a sgusciare alla stretta degli esaminatori. Corsi a comprare il mio Barthes).
9. Tra il 1968 e il 1970 la società italiana cominciò a muoversi, in piazza e nei posti di lavoro: anzi per essere più precisi ciò che si mosse furono le frange estreme di quella società, i disgraziati da un lato e i privilegiati dall’altro, insieme (come sempre succede in simili circostanze). In Arkadia sembrò che fosse arrivata la fine del mondo. L’allora capobosco titolare, il prof. Edoardo Sanguineti, che dell’Arkadia da lui fondata ne aveva piene le tasche si comportò come un capitano che deve affrontare la propria nave, con grande fermezza e con grande dignità. Per prima cosa chiuse il secolo con trent’anni d’anticipo: in un’immortale antologia fermò le lancette del tempo sulla cinquina dei Novissimi, destinati a restare tali per i secoli ed i millenni a venire. Disse poi che i giochi erano tutti giocati, le avventure tutte vissute, tutte le parole dette e lette e tutti i romanzi romanzati. Che stava per iniziare l’età terza o dell’intendimento prevista settecent’anni prima dall’abate Gioacchino da Fiore; l’età degli uomini e della ragione pronosticata dal Vico. Si buttò in politica: diventò consigliere comunale a Genova e deputato per due legislature; e può darsi (la carne, si sa, è debole) che prima o poi ci ritorni, in Arkadia; ma bisogna dargli atto che da allora se ne è tenuto lontano, ponendosi piuttosto, in quanto poeta, problemi di pubblico anziché di gerarchia arcade. (Cosa che torna a suo onore).
10. Abbandonati dalla loro Guida nel mezzo della bufera i rimanenti arcadi persero quel poco senno che avevano, accalcandosi e scavalcandosi verso le uscite della poesia, del romanzo, di tutto ciò che aveva a che fare con la letteratura…
 



mercoledì 15 luglio 2015

ditlinde persefone mendez :l'iperbolico elenco


l’iperbolico elenco segnalava inaspettate reti prodighe di adamantine meraviglie, nel viaggio notturno poche notizie da fonti sommarie, nomi precipitati nell’oblio del furor creativo tra vetri, alambicchi e un fondo lucente in foglia d’oro, nel groviglio di morbi contagiosi e avvelenamenti un cerchio che compare più volte tra risonanti telai e volumi fittamente annotati, tenebrae factae sunt, allontanandosi si ritirò nel campo fluttuante dove un oscuro peso modifica la sostanza dei corpi nel sogno di librarsi da cupe vele e inseguire il moto perpetuo di immortali dipinti, più che linee di forza mobilità di piani e angolazioni tra automi e giardini d’ombre, dalle acrobazie di un organo barocco note maestose o apocalittiche che soffiano sulla brace, i suoni parte dell’universo abbattuto dallo stupore, colore denso e vibrante di sguardi liquidi verso nubi squarciate che lasciavano trasparire l’azzurro delle distanze, la benda sugli occhi da un centro ardente, passanti spaventati da tumultuosi futuri incerti e mescolanze culturali in un luogo non pronto, lo sguardo del condannato a morte da immaginari conquistatori di una spiantata torre eburnea, circola l’aria e si apre lo spazio, nel connubio di frusti tragitti la narrativa perde rilievo, meteore in una dissestata cronologia di esseri divorati da infausti baloccamenti o liquefatti in deliranti gazzarre, assetati di sperimentazioni estreme distribuivano fiabe composte e illustrate di loro mano su incanti rotti e altre mal riuscite metafore, non ti rallegra lo spettacolo dell’altrui rovina, un mattino atterra e non riconosce quella sala invasa da carichi e volti mai visti strepitanti, pietre e malta per qualcosa di grandiosamente inutile tra insegnamenti di santi sociali e ribollenti disquisizioni, un’immobile armata farneticante stremata da filtri, vasi, teste di marmo e scaffali dorati
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nere sagome di corvi fugaci nel punto più fosco del racconto, la fumosità del mondo esterno tra pillole di speranza e visite notturne, comari abbacchiate tra suore e medici o altri esempi di fermezza, lettere che sono ossigeno in un lazzaretto senza anestetici, l’aria pungente una forma di malvagità, parentesi di raccoglimento e gioia o pastiglie di laudano, nella rada campeggiano riflessioni amare e scomode, forzute storie avvincenti, riavutisi dall’emozione si guardarono intorno incuriositi o elettrizzati da tre carte fatali, tarocchi con cinghiale in selva o serpi crestate, donne di malaffare tra fango e canne, l’arrivo di un calesse, una forte detonazione strascico di memorie tenaci e sempre ricorrenti, vous avez oublié, una pila di spartiti tra raso fulvo, rame e soavi note infiacchite da attesi vaneggiamenti, bollettini di guerra annunciano la riconquista di bengasi accompagnata dal commento dio sia lodato, lumi a petrolio sulle finestre, sotto l’aerorimessa il feretro parlò al cuore di tutti, rivivevano la confusione dei preparativi, abulici contribuivano al lavorio o si accasciavano nel cinema all’aperto, ritagli di vite anteriori, cuoio biondo, elleboro, colonne di musici celesti sfioravano il reticolato tra aria e polvere, ruvidi sussulti e una scia rossastra a deporre l’ira, una cockney alticcia sicura d’entrare in una casa da tè tra dipinti sacri e caffettiere napoletane, aria cupa e gruppi armati all’esaltazione della croce, frattanto la reazionaria non si distendeva affatto sconfortata dalle altrui vite del michelaccio, orribile destino tra camere arredate con gusto e fiducia nel futuro, quella sera non erano andati al cinematografo, insolite e magnifiche sensazioni al risveglio, scene d’amore, guerra e violenza, senso di sfinimento, neanche l’ombra di un albero, un campo di aviazione tra sabbia e polvere, maria stuarda era già stata ghigliottinata e la dea triforme attorceva auree reti, parole da sottolineare con rigacce in alloggi di fortuna dove rifiorire o impazzire, ecco le sfere avventar lampi, i più imbestialiti riscontravano aspetti positivi o teorizzavano immobilismi, paesaggio meno pittoresco, i premurosi si prodigano e i ceffi da forca si assiepano ma la voce narrante dice di sentirsi l’animo più leggero se pensa all’ansia che sembrava sciogliersi in dense chiose mentre le vibrazioni dell’euforia sferzano le membra

sabato 11 luglio 2015

l'illuminata

exponere: l'illuminata: avevamo tutti / eravamo vecchissimi / ci davamo colpetti sui fianchi come matti sono io o sei tu - ci arrendiamo allo stato al cattivo...